
MICHELANGELO PACETTI ROME 1793 -1865
Michelangelo Pacetti consegue la sua preparazione artistica presso l’Accademia di San Luca, continuando successivamente gli studi con il pittore fiammingo Martin Verstappen, il quale arrivato a Roma nel 1804, diviene nel 1819 suo cognato.
I primi lavori conosciuti di Pacetti risalgono al 1928, si tratta di un album e di una serie di disegni a lapis datati e firmati, attualmente conservati al Museo di Roma in Palazzo Braschi.
L’artista romano nella sua carriera eseguì scene agresti, nature morte ma soprattutto paesaggi e vedute di Napoli e Roma, tra cui La città di Napoli veduta dalla riviera di Chiaia del 1832, Scorcio del lago di Albeno del 1834, Veduta del Tevere a Roma con San Pietro e Castel Sant’Angelo datata 1835.
Il dipinto qui presentato raffigura una veduta del Foro Romano con i resti del Tempio di Saturno, le cui enormi colonne sono in forte contrasto con i due personaggi in piccole dimensioni in primo piano, uno dei quali è intento a dipingere dal vero lo scorcio di paesaggio che gli sta davanti, pratica molto di moda in questi anni.
Gli influssi della corrente romantica che imperversava a metà Ottocento anche a Roma, è evidente non solo nella scelta del soggetto, in cui nei grandi monumenti del passato romano emerge l’amore per l’antico in tutta la sua solennità, ma anche nell’utilizzo del colore con una sapiente modulazione della luce e dei chiaroscuri.
Scrive Guglielmo De Sanctis in Tommaso Minardi e il suo tempo, a proposito dei paesaggisti romani della prima metà dell’Ottocento:
«Anche lo studio del paesaggio, che poi ricondusse l’arte del dipingere all’osservazione del vero, in quanto alle ragioni del colore e agli effetti di luce nell’aria aperta si era allontanato dai grandi concepimenti del Pussino, di Claudio, di Salvator Rosa e insino dell’Orizzonte. Limitavasi alla timida e sbiadita rappresentazione di alcuni punti più semplici della valle Aricia, del lago di Castello e della Galleria di Albano. Mentre da noi il Pacetti, il Westaffen, il Catel, il Monti usavano così paurosamente della tavolozza; il Turner in Inghilterra faceva capolavori, ammirati tuttora, che derivavano dalle opere deigrandi maestri, sebbene poi trasmodasse troppo, abbandonandosi alla fervida sua fantasia».
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