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Opere
IPPOLITO CAFFI BELLUNO 1809-LISSA 1866
Carnevale di notte in via del CorsoOlio su carta applicata su telacm. 50 x 62,5
VENDUTO
“Le Carneval de Rome fourmille, babille, et scintille aux lueurs de cent mille moccoletti”, così scriveva il poeta, narratore e critico Thèophile Gautier nel 1855 dinnanzi al “Carnevale” che comparve alla prima Exposition Universelle di Parigi. Non era questo il primo esemplare di questo soggetto prodotto da Ippolito Caffi, eppure l’emozione che suscitava era sempre la stessa, curiosa, affascinata, entusiasta. Il soggetto gli nacque forse lì per lì, d’istinto, durante un carnevale del 1837. Si era trasferito a Roma cinque anni prima, abbandonando quella “accademia” che a Venezia spegneva la sua irrequieta creatività. Roma lo seduce, lo allontana dalla strada di un figurismo retrivo, campo nel quale non pareva certo promettere grandi risultati futuri. Ed è a Roma che si sperimenta nella veduta, intraprendendo un cammino che lo renderà, lui pure così diverso e certo involontario erede, un Canaletto post-litteram di imprevisto successo. A soli tre anni di distanza da quella modesta Via Crucis la cui vendita gli aveva comunque consentito il viaggio a Roma, Ippolito realizza, nel 1834, una vedutina di Trinità dei Monti solcata da ombre leggere e scevra di figure (Venezia, Ca’ Pesaro), una dell’ Aranciera di Villa Borghese (Roma, Museo di Roma) e una Festa in Piazza di Siena (già Roma, collezione Di Castro) sulla quale, quasi con orgoglio, verga il verso scrivendo “Roma 1834 CAFFI IP Via Vittoria n. 25 P Piano”. Sono questi tre dipinti l’inizio del personalissimo vedutismo del pittore bellunese e di quella sua analisi continua delle luci e delle atmosfere che renderanno il suo vocabolario uno dei più autonomi e innovativi dell’Ottocento italiano. A pochi anni dal suo esordio nel vedutismo, Ippolito crea, nel 1837, il prototipo di un soggetto che ebbe una fortuna tutta particolare: il Carnevale in via del Corso, comunemente noto come “I moccoletti”. Dieci anni dopo, l’ 1 maggio 1847, è l’artista stesso, in una lettera all’amico Tessari, a descriverne il successo, narrando di aver dovuto ripetere questo tema varie volte, tanta era la richiesta dei committenti. Ora, a confrontarle queste repliche ,salta agli occhi la perizia del Caffi nel renderle dissimili sempre una dall’altra e la vivacità spontanea nel posizionale le figurine, nel modulare un racconto sempre nuovo. Dunque sarà stato anche pur vero che i suoi estimatori prediligevano questo soggetto, ma è certo altrettanto vero che esso era entrato con forza nel cuore dell’artista stesso. Vi si ritrova “il desiderio di migliorare gli effetti già conseguiti…”, ma anche il suo entusiasmo romantico nel cimentarsi (M.Pittaluga, 1971, pp. 31 e 36), quella ansia etica non essere mai uguale a se stesso, di produrre per gli altri nella serena convinzione di aver realizzato sempre un unicum. Tra le opere ad olio che immortalano Il Carnevale in via del Corso, questa, riprodotta sopra in una fotografia prima del restauro, è una delle versioni più fresche ed autentiche. Vi si ritrova la peculiare attenzione dell’artista nella resa della scenografia urbana, tipica delle sue tele migliori; questo rigore elegante risulta ora ancora più evidente dopo l’accurata pulitura alla quale il dipinto è stato sottoposto: ora realmente le luci sfavillano, cinguettano – proprio come le vedeva il Gautier cento cinquanta anni or sono -, illuminando pareti, balconi, drappi, modulandone le ombre e definendone gli spessori. La folla si accalca lungo via del Corso in un turbinio di movimenti, di esclamazioni, di balli e chiacchiere festose: la massa dei figuranti recita quindi, consapevole, una divertita commedia dell’arte illuminata da un lampo di grazia creativa costruita in punta di pennello, con un colore corposo che vira sapientemente dal bruno al giallo , dal cobalto al rosso.
La festa dei moccoletti era una delle più amate dai romani del tempo e prendeva vita dopo la “corsa dei barberi” che vedeva i cavalli, senza fantino, lanciati a folle corsa da Piazza del Popolo all’attuale Piazza Venezia, incitati dalla folla in delirio. Era il martedì grasso, l’ultimo giorno del carnevale e la gente si accalcava lungo la direttrice di via del Corso reggendo in mano il “moccolo” acceso, di qualunque forma forse purché incandescente – una candela, una torcia, persino un candelabro – e cercando di spegnere quello degli altri, in un giocoso baccanale fuori del tempo. Non è semplice collocare cronologicamente l’esecuzione delle varie raffigurazioni dei “moccoletti” di Caffi: infatti, a parte le prime due versioni a noi note, datate 1837 (Venezia, Galleria d’Arte Moderna di Ca’Pesaro) che possono essere considerate i prototipi della serie, molto raramente esse risultano datate ed altrettanto raramente possono esserlo deduttivamente con precisione. Ritengo comunque che il dipinto qui considerato sia da collocare nel quinto decennio del secolo, in quanto mostra già una notevole padronanza della composizione senza tuttavia adagiarsi su un meccanismo ripetitivo di successo. Caffi fu certamente affascinato da questo soggetto e certamente non lo ripeté solo per il consenso che esso ebbe presso il suo pubblico, quanto piuttosto per tutto quello che significava nella sua perenne ricerca di “novità”: luci ,ombre, rifrangenze, prospettive, emozioni, il tutto tradotto in colore, materia e spessore. Come altri dei soggetti da lui più amati e più spesso replicati – La Benedizione di Pio IX al Quirinale o I fuochi in Bacino a San Marco – l’ambientazione notturna lo stimola, lo seduce e gli consente di giocare con gli spazi e le atmosfere realizzando visioni dal significato onirico e rarefatto .
Annalisa Scarpa
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