

VINCENZO CAMUCCINI ROME, 1771-1844
93 x 78 x 5 cm (con cornice)
Provenienza
Collezione Barone Vincenzo Camuccini, Palazzo Camuccini, Cantalupo in Sabina; Eredi Camuccini, Roma
Mostre
1978, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Vincenzo Camuccini (1771-1844). Bozzetti e disegni dallo studio dell’artista, n. 69; 2021, Roma-Parigi, I Camuccini. Tra Neoclassicismo e sentimento romantico, Roma, Antonacci Lapiccirella Fine Art, 1-28 Ottobre 2021; Parigi, presso Galerie Eric Coatalem, 5-11 Novembre 2021;Parigi, Maurizio Nobile Fine Art, 16 Novembre - 3 Dicembre 2021.
Bibliografia
G. Piantoni De Angelis, scheda in Vincenzo Camuccini (1771-1844). Bozzetti e disegni dallo studio dell’artista , a cura di G. Piantoni De Angelis, catalogo della mostra (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 27 ottobre - 31 dicembre 1978), Roma 1978, p. 37, n. 69; L. Verdone, Vincenzo Camuccini pittore neoclassico, Roma 2005, p. 134, fig. 27 (particolare); I Camuccini. Tra Neoclassicismo e sentimento romantico, catalogo della mostra a cura di Antonacci Lapiccirella Fine Art e Maurizio Nobile Fine Art, testi di Stefano Bosi, Sagep 2021, p. 41, n.16
Narrata da Tito Livio e ripresa dall’Abate Vertot d’Aubeuf e da Vittorio Alfieri nel Settecento[1], la vicenda della morte di Virginia si annovera tra la nutrita schiera di exempla virtutis che il rinnovato genere storico sperimenta dalla seconda metà del XVIII secolo per approdare a inedite soluzioni formali e a un linguaggio carico di contenuti[2]. Il racconto narra un episodio di morte preferita al disonore: il decemviro Appio Claudio, invaghito della bella Virginia, tenta di prenderla come schiava, ma il padre di questa afferra un coltello da macellaio e la uccide, piuttosto che vederla disonorata. Nell’interpretazione di Camuccini questa agghiacciante moralità è espressa con uno stile severo fatto di figure marmoree rigorosamente ordinate su una griglia prospettica rettilinea: uno stile di stoica sobrietà prossimo alle opere manifesto di David, anche se influenzato, a sua volta, dal precoce neoclassicismo delle illustrazioni di storia romana di Gravelot e dai dipinti di analogo tema eseguiti in precedenza da Gabriel-François Doyen (1760) e da Nathaniel Dance (1761)[3].
È sul finire del Settecento che l’artista romano riceve da parte di uno dei più prestigiosi viaggiatori e collezionisti britannici presenti a Roma, Frederick August Hervey vescovo di Derry e IV conte di Bristol, l’incarico di eseguire la monumentale tela pensata come pendant della Morte di Cesare, commissionata dallo stesso lord inglese nel 1793[4]. Qui le molteplici correnti del tardo Settecento con tematiche didascaliche, riforma stilistica e allusioni classiche, sono distillati in una immagine stoica, che coniuga genio pittorico e passione morale. Paragonate all’energia e al fervore presenti nel dipinto – di cui le due tele esposte sono rispettivamente lo studio preparatorio e un bozzetto rifinito della porzione sinistra[5] –, le precedenti raffigurazioni della virtù classica appaiono deboli sia nello stile, sia nella convinzione etica. Le loro oscillazioni, i loro compromessi sono ora completamente cancellati da un quadro che sintetizza le più rigorose potenzialità della forma neoclassica e della virtù della Repubblica romana. I personaggi messi in campo da Camuccini sono animati da una vigorosa asserzione di volontà. Nell’eroico gesto del padre di Virginia questa nuova proclamazione di energia morale pervade il corpo e la mente, dallo sguardo determinato del suo volto fermo ai muscoli in tensione dei suoi arti protesi. In drammatica contrapposizione la nutrice alle sue spalle è sopraffatta da un tragico dolore. Non è soltanto la composizione, con i suoi raggruppamenti separati, a rompere decisamente l’unità d’azione, ma persino lo stile del disegno distingue fra virile determinazione e abbandono femminile alle più deboli passioni. Così nel gruppo sinistro della scena, capeggiata dalla figura ieratica di Appio Claudio, i muscoli tesi nell’anatomia sapientemente studiata creano contorni e pose, i cui ritmi fermi e angolosi entrano in contrasto con i profili più malleabili e fluenti, che, salendo dal piede destro di Virginia fino a morire nel suo braccio sinistro, suggeriscono astrattamente un’immagine di estenuato e disperato dolore[6].
Sono opere come queste a apparire agli occhi di Giuseppe Mazzini critico d’arte tra gli esiti migliori partoriti da quella “scuola classica” – di cui Camuccini, insieme a Giuseppe Bossi, Andrea Appiani e Pietro Benvenuti, è tra gli esponenti più autorevoli – capace di cancellare con un colpo di spugna dalle precedenti arti figurative “l’esagerazione, l’artificiosità e il manierismo”. La sola scuola capace di purificare il gusto e di infondere alla pittura ideali nuovi e, sul piano formale, “la finitezza, l’esecuzione […] la perfezione dei particolari […] la purezza del disegno, la maestria del drappeggiamento, del raggruppamento sapiente e classico”[7]. Un’arte di transizione, dunque, indispensabile tuttavia per approdare alla moderna pittura di storia nazionale di cui Francesco Hayez ne è il massimo rappresentante; un’arte composta di magistrali artefici di una pittura che crede nella rinascita civile dell’uomo e che trova sui lidi della Grecia e di Roma il suo Paradiso Perduto.
- Stefano Bosi
[1] Narrata nel Libro III di Ab urbe condita (vv. 44-58) di Tito Livio, la vicenda di Virginia è rievocata nel 1719 da Aubert de Vertot d’Aubeuf nella sua Histoire des révolutions arrivées dans le gouvernement de la république romaine, nel 1738-1741 da Charles Rollin nell’Histoire Romaine depuis la fondation de Rome jusqu’à la bataille d'Actium (1738-1741), e da Vittorio Alfieri nella tragedia omonima, pubblicata nel 1783 (Cfr. V. Alfieri, Vita scritta da esso, a cura di L. Fassò, Asti 1951, IV, 6).
[2] Sull’argomento, ancora fondamentale rimane l’analisi presente in R. Rosenblum, Trasformazioni nell’arte. Iconografia e stile tra Neoclassicismo e Romanticismo, Roma 1984, pp. 85-130 [ed. ingl. R. Rosenblum, Transformations in late Eighteenth-Century Art, Princeton 1967].
[3] La gigantesca tela di Doyen fu acquistata, tramite l’autorevole mediazione del conte di Caylus, dal duca di Parma don Filippo di Borbone (Parma, Galleria Nazionale), dopo che al Salon parigino del 1760 aveva suscitato l’entusiasmo di Diderot. Il tema è stato ripreso l’anno dopo da Dance nel dipinto presentato nel 1761 alla Society of Artists di Londra e inciso sei anni più tardi da John Gottfried Haid (Cfr. B. Skinner, Somme Aspects of the Work of Nathaniel Dance in Rome, in “Burlington Magazine”, CI, settembre-ottobre 1959, pp. 346-349), quindi da Nicolas-Guy Brenet al Salon del 1783 (Nantes, Musée des Beaux-Arts) e da Guillaume Guillon Lethière in un disegno esposto al Salon del 1795 che, solo nel 1828, sarà tradotto nella monumentale versione dipinta del Louvre (Cfr. A. Imbellone, scheda in Vittorio Alfieri aristocratico ribelle (1749-1803), a cura di R. Maggio Serra, F. Mazzocca, C. Sisi e C. Spantigati, catalogo della mostra, Milano 2003, pp. 58-59, n. II.5). Sempre nel 1795 Jean-Jacques-François Le Barbier rappresenta l’istante – secondo l’indicazione del catalogo del Salon – “où Virginie est appellée en jugement devant le décemvir Appius, qui donne ordre à Claudius d’enlever la jeune romaine. Mais Icillus, à qui elle étoit promise, vient d’enlever à ses ravisseurs et menace Appius. Munitorius oncle de Virginie écarte un Licteur qui s’opposoit à son passage, et les dames romaines défendent la pudeur outragée. La scène est dans la place publique”.
[4] Una descrizione dettagliata dell’opera è riportata in M. Missirini, Alcuni fatti della storia romana dipinti dal Barone Vincenzo Camuccini incisi a bolino da diversi artisti e descritti dall’abate Melchior Missirini, Roma 1835, pp. 15-21. Sulla storia della Morte di Virginia e della Morte di Cesare, si veda la scheda precedente, con relative note.
[5] Rispetto al dipinto oggi conservato al Museo di Capodimonte, in queste due tele sono presenti numerose differenze di stile, che testimoniano il lungo percorso creativo condotto da Camuccini verso la versione definitiva (Cfr. Vincenzo Camuccini (1771-1844). Bozzetti e disegni dallo studio dell’artista, a cura di G. Piantoni De Angelis, catalogo della mostra, Roma 1978, pp. 34-37, nn. 65-69). Nello studio preparatorio dell’Appio Claudio, ad esempio, la differenza più evidente riguarda la figura del littore posto a sinistra del politico romano, colto nell’atto di coprirsi il volto con la mano sinistra per non osservare la tragedia che si sta consumando davanti a lui. Espediente che nell’opera finale Camuccini decide di mutare, conferendo alla figura una espressione più serena e di ammirazione nei riguardi di Appio Claudio.
[6] Proprio la figura di Virginia è oggetto di ammirazione da parte di August Wilhelm Schlegel, specie nel gesto con cui “si aggrappa alla veste del padre con un atto che dichiara una consuetudine infantile”.
[7] G. Mazzini, La pittura moderna italiana, in Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini, Imola, vol. XXI, p. 271.
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